Indice:
Che cos’è la fobia sociale?
La Fobia sociale si manifesta come la paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazionali nelle quali si è esposti a persone non familiari od al possibile giudizio degli altri. L’individuo che ne soffre teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante od imbarazzante e questo determina che la sua permanenza in una situazione tanto temuta quasi invariabilmente provochi l’ansia, che può assumere le caratteristiche di un Attacco di Panico causato dalla situazione. Questa reazione diventa quindi a sua volta oggetto di paura instaurando un circolo vizioso continuo di cui la persona riconosce che la paura è eccessiva od irragionevole.
Le situazioni temute, sociali o prestazionali, sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio e l’evitamento, l’ansia anticipatoria, od il disagio nella situazione sociale o prestazionale interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività o relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere questo tipo di fobia.
Mi potrebbe spiegare cos’è la Schizofrenia?
Il termine schizofrenia, introdotto da Eugen Bleuer all’inizio del ‘900, deriva dal greco “mente divisa” e rappresenta la più comune delle psicosi, tanto che spesso essa è considerata l’emblema di tutta la categoria diagnostica. Quando si sente parlare di schizofrenia, si pensa immediatamente alla malattia mentale, quella “vera”, quella da “manicomio e camicia di forza”, ma anche in modo più pittoresco alla mente deviata degli omicidi seriali… La verità è fortunatamente lontana da queste dicerie, ma l’uso improprio di termini come questo o la sua sopraordinata categoria: Psicosi, posso davvero trarre in inganno. Negli ultimi anni abbiamo assistito a vari tipi di “psicosi giornalistiche”: dei polli, della diossina, della spazzatura…beh sarebbe più esatto parlare di fissazioni, paure, a volte vere e proprie fobie!
I sintomi della schizofrenia possono interessare tutte le funzioni che caratterizzano il comportamento, la cognizione e le emozioni della persona: la percezione, il pensiero, il linguaggio, la volontà, la creatività e talvolta tale influenza può apportare anche alcuni miglioramenti, fermo restando che si tratta di una malattia fortemente intrusiva, persistente e quindi frequentemente invalidante.
Generalmente vengono identificate due principali classi di sintomi:
1) I sintomi positivi o produttivi
-Deliri: sono pensieri e convinzioni assolute ed incontestabili radicate nel cervello del malato, ma prive di una base reale. Ad esempio, il paziente può affermare di essere seguito oppure osservato, o magari di disporre di poteri particolari che gli consentono di “dominare” gli altri.
-Allucinazioni: sono percezioni (perlopiù uditive) di stimoli del tutto irreali, come sentire voci che parlano di lui oppure di vedere oggetti che si muovono fino al punto di inseguirlo.
-Disturbi del pensiero: pensiero dissociato, “furto” del pensiero, influenzamento del pensiero, neologismi, “insalata” di parole, tangenzialità.
2) I sintomi negativi
-Disturbi dell’affettività: appiattimento affettivo, ambivalenza affettiva, contraddizione, autismo.
-Anedonia: mancanza di emozioni, abulia, isolamento e apatia. Lo schizofrenico perde progressivamente ogni interesse per quanto lo circonda e si chiude in se stesso, dimostrando una forte abulia nei confronti del mondo esterno. Non desidera più avere rapporti sociali, si estranea dal nucleo familiare e si chiude in un mondo tutto suo.
-Disturbi catatonici: completo immobilismo e mutismo, o esplosioni incontrollate di aggressività; catalepsia (ossia la possibilità di posizionare le membra del paziente in qualsiasi posizione).
Cos’è lo Stress?
È la normale risposta dell’organismo ai cambiamenti che avvengo internamente od esternamente al nostro corpo e serve a mantenere un’omeostasi (equilibrio) interno. Questo significa che di per sé lo stress è un meccanismo funzionale ed infatti si parla di stress buono (eu-stress) e stress nocivo (di-stress) termini che però possono non portare a ritenere che sia lo stimolo ad essere più o meno cattivo, mentre è la risposta che a questo stimolo fornisce l’organismo a determinarne la portata.
Infatti non appena lo stimo esterno o interno raggiunge l’organismo si ha una risposta generalizzata ed aspecifica di allarme; dopo di essa l’organismo prova a resistere a tale “attacco” al fine di riadattarsi (fase di resistenza) e, se non ce la fa si raggiunge la fase di esaurimento.
Quali sono gli eventi ambientali potenzialmente stressanti?
Si comincia dai cambi di stagione per arrivare alle vere e proprie catastrofi naturali, l’eccesso o la totale assenza di stimolazione, l’inquinamento, i fattori alimentari e dietetici, la pioggia, le radiazioni, il rumore, gli sbalzi di temperatura ed i fattori microbici e virali.
Quali sono gli eventi psicosociali potenzialmente stressanti?
Sono state stilate diverse liste, poi gerarchizzate. Fra i più popolari si ricordano: la morte del coniuge, il divorzio, la separazione, la detenzione in carcere, la morte di un parente, una malattia…ma anche il matrimonio, il trasloco, le vacanze, il Natale…
Lazarus ha presentato una lista di problemi quotidiani tra i quali si ricorda: la preoccupazione per il peso e per l’aspetto fisico, la preoccupazione per l’aumento del costo dei beni di consumo, per la criminalità, per i propri beni, l’impiego, il denaro, le tasse, l’eccesso di lavoro, la cura della casa, la perdita di qualcosa ed infine trovare un numero di telefono sempre occupato.
Cos’è il coping?
Con questo termine si intendono le risorse e le tecniche che l’individuo mette in atto per fronteggiare la situazione.
Quali tipi di coping esistono?
Il coping può essere interno ed esterno e può essere orientato al compito, all’emozione o all’evitamento.
Per coping interno si considerano alcune caratteristiche di personalità come la cosiddetta hardiness, caratterizzata da impegno, controllo e sfida e l’ottimismo. Le persone con queste caratteristiche tendono infatti a risultare più protette nei confronti delle conseguenze dello stress.
Per coping esterno si intende invece il sostegno sociale e le risorse materiali. Per quanto riguarda il primo si sono concentrati diversi studi per comprendere in che modo l’avere una rete sociale aiuti a proteggerci dallo stress e sembra che in qualche modo questo serva nella promozione di comportamenti più salutari (mangiare sano ed in misura adeguata, non fumare, avere orari equilibrati, bere moderatamente), e, contribuendo ad un’immagine ed identità sociale, permetta un miglioramento nell’autostima.
Per quanto riguarda l’orientamento del coping preferisco proporre alcuni esempi: uno studente è appena bocciato ad un esame; l’orientamento al compito consiste nel rivedere le proprie lacune; l’orientamento all’emozione è piangere su quanto è successo o comunque restare nello stato emotivo che la situazione ha generato; l’orientamento all’evitamento si manifesta con la tipica frase: “Adesso non ci voglio proprio pensare, ho bisogno di sfogarmi correndo un po’”. Ognuno di questi orientamenti può essere funzionale in base alla durata, all’intensità ed alle caratteristiche individuali della persona che la mette in atto. È infatti comune che alcune persone abbiano bisogno di piangere “sul latte versato” per poter ricominciare…o di distrarsi. Il fine ultimo è comunque tornare a focalizzarsi sul compito.
Cos’è lo stress management?
È una forma di terapia attiva, direttiva e psicoeducativa che permette di contrastare gli effetti dello stress attraverso diversi tipi di interventi.
Che tipi di problemi produce lo stress?
Psicosomatici; Psicofisiologici ed Organici.
Lo stress è il precursore di moltissimi disturbi d’ansia, primo fra tutti il Disturbo Di Panico, ma è anche implicato nelle cefalee muscolo tensive, nell’ipertensione, nel dolore cronico e nelle neoplasie.
Queste domande sono state sintetizzate per essere il più possibile dirette ed esaustive.
Vorrei però dire a tutti quelli che mi hanno scritto che ho letto anche la vostra angoscia nel pensare di allontanare dalla propria abitazione un vostro caro, non più autosufficiente. È una scelta difficile ma necessaria per garantire alla persona il mantenimento della propria dignità fino alla fine e, grazie alle strutture specializzate anche alla conservazione delle abilità residue! È una cura, non un abbandono! Sara Ginanneschi
Che significa che è necessario un approccio sia multidisciplinare che multimodale nella valutazione dell’anziano?
Quando una persona anziana si sottopone ad una visita è necessario avvalersi di esami provenienti da più tipi di professionisti per poter avere un quadro omnicomprensivo della situazione attuale, relativamente alle funzioni fisiche ed alle funzionalità psicologiche e pratiche ed i bisogni.
Quando si parla di valutazione multimodale ci si riferisce ad una valutazione dello stato:
-
Cognitivo
-
Emotivo
-
Comportamentale
-
Funzionale (cose che si sanno fare – abilità)
-
Sociale.
Cos’è tecnicamente la demenza?
È un disturbo ingravescente e progressivo caratterizzato da un declino cognitivo che si manifesta in uno stato di coscienza normale ed in assenza di altre malattie acute come il delirium o la depressione.
Quali sono i sintomi nella demenza di Alzheimer?
Si osserva un declino inesorabile della funzione intellettiva con perdita totale dell’indipendenza e morte nei 2-10 anni successivi alla diagnosi.
Il sintomo più comune è un ingravescente peggioramento della memoria a breve termine: la persona non si ricorda cose fatte poco prima ed il difetto tende a manifestarsi nei ricoveri ospedalieri perché è proprio fuori dal proprio ambiente che si osserva una tendenza a disorganizzarsi (o meglio a non adattarsi!!).
Queste persone possono avere dei problemi di linguaggio ma che non sono propriamente dovuti a questa funzione, ma sono ancora a carico della memoria, come l’incapacità a ricordarsi i nomi di persona o degli oggetti, le circonlocuzioni, le parafrasie.
Inoltre si osservano dei cambiamenti nella personalità, una compromissione della capacità critica (possono divenire molto suggestionabili) ed una certa labilità emotiva.
Talvolta i familiari riportano che trovano i loro cari più irritabili, ostili ed agitati.
All’ingresso in una casa di cura, quali sono le principali valutazioni dell’anziano?
Oltre all’esame fisico si procede con una valutazione neuropsicologica completa.
La diagnosi è tesa ad identificare correttamente il problema ed a distinguerlo da altre condizioni simili che talvolta possono essere più favorevoli!
Esistono altre condizioni che possono essere scambiate per demenza?
Sì! Le principali condizioni sono: il normale invecchiamento, la smemoratezza senile benigna e la pseudodemenza.
Nel normale invecchiamento si ha infatti una perdita di memoria normale per età; una compromissione che riguarda un solo settore; un alterazione delle funzioni cognitive sotto soglia (ossia che non sono tanto conclamate da poter giustificare una diagnosi di demenza); e, qualora vi sia un declino delle funzioni cognitive questo è secondario ad un altro disturbo e quindi reversibile.
Nella pseudodemenza si ha un esordio improvviso, con progressione rapida; il paziente è consapevole di quanto gli sta accadendo e questo può incidere fortemente sul suo stato d’umore e sul suo comportamento tanto che si registrano molti casi di suicidio.
Nella smemoratezza senile benigna si ha un apprendimento di nuove informazione un po’ più lenta rispetto alla normalità; il funzionamento quotidiano rimane del tutto normale e le persone, accorgendosi di questa loro nuova condizione, possono preoccuparsene.
Nei casi di demenza non c’è molta consapevolezza di malattia, dei propri sintomi e della condizione attuale.
Quali sono i fattori di rischio della Depressione nell’anziano?
I fattori di rischio per la Depressione, così come nelle persone più giovani, sono di tipo psicosociale, mentre i fattori ereditari sembrano avere un peso minore nell’età avanzata.
Importanti sono i fattori di tipo psicologico (schemi di pensiero e di comportamento tendenti alla negatività, disfunzionali, od orientati ai sensi di colpa); i fattori sociali (come la perdita del coniuge, o una diminuzione del sostegno sociale); il reddito; i disturbi medici.
Quali sono i Disturbi d’ansia più facilmente riscontrabili nell’anziano?
Il Disturbo d’Ansia Generalizzata ed il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, mentre sono relativamente rari il Disturbo di Panico, il Disturbo Post Traumatico da Stress ed i Disturbi Fobici. Il Disturbo D’ansia Generalizzata si manifesta con almeno 3 condizioni tra le seguenti:
Irrequietezza o nervosismo
Affaticamento facile
Difficoltà di concentrazione
Irritabilità
Senso di tensione muscolare
Disturbi del sonno.
È importante valutare che questo genere di disturbi non sia però secondari o ad una condizione medica iniziale o ad alcuni farmaci; altre volte sono altre condizioni come il delirium e la depressione a generare ansia, così come l’inizio di uno stato dementigeno.
Come si possono valutare lo stato funzionale e le autonomie?
Esistono veri e propri test in grado di valutare le abilità funzionali residue. Il BADL registra le attività basali: alzarsi dal letto, camminare, fare il bagno o la doccia, vestirsi, tenere un’adeguata igiene personale, mangiare ed utilizzare i servizi.
L’IADL quelle di natura strumentale: usare il telefono, i mezzi di trasporto, fare la spesa, cucinare, amministrare il manage familiare, gestire il denaro, mantenere hobby ed attività professionali ed assumere i farmaci.
Una volta riconosciute le abilità residue il lavoro consiste nel mantenerle e migliorarle il più possibile utilizzandole anche come “rinforzi” per poter ampliare il bagaglio comportamentale disponibile.
Per esempio se una persona anziana è in grado di gestire il denaro, attraverso l’esercizio di questa abilità la si può portare ad andare a fare la spesa che, sul piano dell’umore, può diminuire sia uno stato depressivo che l’isolamento sociale.
Che cosa è l’MCI?
È uno stato di transizione tra il normale invecchiamento ed una demenza conclamata; si riconosce perché lo stato funzionale globale e lo stato cognitivo non sono compromessi mentre ai test specifici, soprattutto quelli di memoria, si può riscontrare un deficit anche molto importante.
Come si sceglie l’intervento più adeguato?
La scelta dipende dalla persona, soprattutto in relazione all’entità del disturbo diagnosticato. È inoltre importante il contesto in quanto un trattamento ospedaliero, ambulatoriale o all’interno di una struttura specifica può variare considerevolmente. Allo stesso modo variano quindi le risorse disponibili in termini di tempo e personale sul quale si può contare.
L’intervento può infine essere specifico o aspecifico.
A cosa serve il sonno REM?
Innanzitutto non è il sonno dei sogni perché è stato dimostrato che si sogna durante tutta la notte ma, poiché durante questa fase si ha un’attività cerebrale molto vivace, i sogni che si fanno risultano più vividi e pieni di significato.
Molti autori hanno cercato di rispondere a questa domanda! Alcuni sostengono che il sonno REM serva a consolidare i ricordi nella memoria a lungo termine, un magazzino di memoria più o meno permanente dove risiedono tutte le cose immagazzinate nella vita; altri sono invece certi che serva allo sviluppo del sistema nervoso centrale e questa teoria troverebbe riscontro nella durata del sonno dei bambini rispetto agli anziani. Inoltre il sonno REM nei bambini è il 50% del sonno totale, mentre questa percentuale si dimezza all’età di 10 anni. Per quanto riguarda le fasi del sonno non REM (NREM) la fase 2 sembra aumentare in durata negli anziani, mentre la 4 va a scomparire.
È vero che con l’età cambia il sonno? Se sì, in che modo?
Assolutamente sì! I bambini hanno un sonno polifasico (ossia si addormentano più volte al giorno) che ha una durata totale di circa 16 ore, mentre nell’adulto e nell’anziano il sonno è monofasico (anche se alcuni autori sono a favore di considerare la pennichella pomeridiana una seconda fase di sonno che diverrebbe quindi bifasico) si stabilizza intorno alle 8 ore, con una variabilità di + o – 2 fino a raggiungere 6,5 all’età di 60 anni.
Quali sono i principali disturbi del sonno? Come si definiscono?
I disturbi del sonno di dividono in DISSONNIE e PARASONNIE (si pronunciano come “insonnia” con l’accento sulla o, anche se in ambito accademico ho personalmente sentito di tutto!).
Fra le DISSONNIE troviamo:
Insonnia primaria
Ipersonnia primaria
Narcolessia
Disturbo del sonno correlato alla respirazione
Disturbo del ritmo circadiano del sonno
Per quanto riguarda l’Insonnia e l’Ipersonnia i sintomi devono essere presenti per almeno un mese affinché sia possibile fare diagnosi e devono comportare disagio per la persona che ne è affetta. Per quanto riguarda la prima si manifesta con una difficoltà ad addormentarsi, a mantenere il sonno, o a svegliarsi riposati dopo essersi addormentati regolarmente.
Le persone che soffrono d’insonnia lamentano di essere abuliche (mancano della energia mentale e psicologica come quella che serve per prendere decisioni), asteniche (si sentono senza forza fisica), irritabili, disforiche (con uno stato d’umore basso). Hanno poi difficoltà a concentrarsi e possono sentirsi rallentate sia mentalmente che fisicamente.
L’Insonnia si presenta spesso nella Depressione, Nel Disturbo d’Ansia Generalizzata e nel Delirium.
Nei casi di Mania (Disturbo Bipolare I) o Ipomania (che sia o meno presente un Disturbo Bipolare II) non si parla di Insonnia in quanto le persone sostengono di non aver necessità di dormire e non soffrono quindi il disagio soggettivo relativo alla perdita di sonno tipica degli insonni. [Per una specificazione dei Disturbi Bipolari si rimanda alla relativa sezione]
L’Ipersonnia si manifesta con, al contrario, un’eccessiva sonnolenza.
La Narcolessia si manifesta con “attacchi” di sonno irresistibili per almeno 3 mesi, circa 2-6 al giorno della durata di 10-20 minuti/ un’ora. Il sonno risulta ristoratore. È inoltre presente almeno uno tra: cataplessia di pochi secondi associata ad emozioni intense (la persona improvvisamente percepisce una debolezza muscolare che può provocare cedimento della ginocchia, della mandibola, della testa o degli arti, o delle palpebre) o allucinazioni ipnagogiche/ipnapompiche (quelle che si manifestano quando ci si sta addormentando o risvegliando) o paralisi del sonno (quella sensazione che capita quando ci si è appena risvegliati e, pur rendendosi conto di essere svegli non si riesce a muoversi per qualche secondo).
Il Disturbo del Sonno Correlato alla Respirazione o spesso chiamato da Apnee Notturne, consiste nell’interruzione del sonno che si manifesta con eccessiva sonnolenza o insonnia successiva. Può essere ostruttiva (deriva dal sovrappeso e dal russamento); centrali (più frequente negli anziani e nelle patologie cardiache/neurologiche); da iperventilazione alveolare (si ha una bassa concentrazione di ossigeno nel sangue arterioso (quello che porta l’ossigeno ai tessuti).
Il Disturbo del Ritmo Circadiano del Sonno è caratterizzato da un cambiamento di fase che porta all’insonnia o ad eccessiva sonnolenza. Ve ne sono 4 tipi:
fase del sonno ritardata (detta dei gufi notturni, persone che vanno a letto sempre più tardi fino a sfasarsi); fase del sonno anticipata; sindrome del Jet Lag (alterazione dovuta al cambiamento di fuso orario continuo); alterazione da turno lavorativo (che colpisce le persone sottoposte a turni di lavoro notturni).
Le PARASONNIE sono disturbi correlati al sonno che possono indurre un cattivo funzionamento diurno. Esse sono il Disturbo da Incubi (la persona si sveglia dopo aver fatto incubi terribili di cui ha un ricordo vivido); il Disturbo da Terrore nel Sonno, conosciuto anche come Pavor (la persona si sveglia spesso gridando e fortemente impaurita, ma non riesce a ricordare il sogno e non è facilmente rassicurabile); il Disturbo da Sonnambulismo (caratterizzato dall’alzarsi dal letto e camminare nell’ambiente o soltanto parlare, la persona è incosciente, non vi è possibilità di comunicare con lei ed è difficile svegliarla). Una leggenda sostiene che svegliare le persone durante una deambulazione da sonnambulismo porti a gravissime conseguenze. Questo è del tutto falso! C’è da dire che, poiché la persona sta dormendo e probabilmente sognando, se si sveglia ed improvvisamente si trova nel salotto a luce accesa può manifestare un breve periodo di confusione ed irritabilità, anche perché non vi è ricordo dell’episodio!
Quali condizioni mediche potrebbero causare disturbi del sonno?
L’ipertiroidismo, l’asma bronchiale ed altre patologie respiratorie anche transitorie (ed allo stesso modo passeggeri saranno i disturbi del sonno correlati), il dolore cronico e la menopausa nelle donne.
Cosa si può fare per superare un periodo d’insonnia?
Il trattamento per eccellenza è chiamato Igiene del Sonno. Il terapeuta fa tenere al soggetto un diario del sonno per verificare le caratteristiche del sonno e del disturbo ed aiuta la persona a migliorare non solo la quantità e la qualità del sonno ma le abitudini ed i pensieri spesso associati a questi disturbi. Ci sono però centri specializzati in cui le misurazioni sono effettuate da strumenti accurati ed oggettivi e, nei casi più gravi è davvero utile recarsi in queste strutture.
In questa sezione verrà data risposta alle domande più frequenti che sono arrivate ad Ambulatorio di Psicologia. Un consiglio generale che mi sento di dare è: per un trattamento farmacologico rivolgetevi ad uno Psichiatra e non accontentatevi delle prescrizioni (purtroppo talvolta facili) dei medici di base che, pur sapendo molte cose e conoscendo bene i loro pazienti, non sono preparati in maniera tanto specifica quanto lo Psichiatra! Inoltre, una volta iniziata una terapia farmacologica il consiglio è di affiancarvene una psicologica che, all’abbassamento del sintomo grazie al farmaco, permetta un lavoro più completo e duraturo sulla persona stessa.
Quali sono i principali motivi d’insuccesso nel trattamento farmacologico?
La diagnosi errata: purtroppo anche i medici e gli psicologi sbagliano e, qualora la diagnosi non sia aderente con il quadro clinico il trattamento può fallire.
Il trattamento inadeguato. A volte la scelta del trattamento può essere guidata da una cattiva diagnosi di partenza, ma anche da convinzioni dello psichiatra. Purtroppo ancora oggi sono pochi i medici che richiedono il supporto psicologico di un professionista per poter affrontare il disturbo dei pazienti a 360°.
Il farmaco inadeguato o inefficace. I farmaci in commercio sono moltissimi e non è detto che quello che funziona con molti sia efficace per tutti.
Un periodo di prova troppo breve; significa che prima di intraprendere la terapia farmacologica vera e propria, lo psichiatra, prova un determinato trattamento al fine di ridurre gli effetti collaterali e garantire la riuscita solo di quelli terapeutici. Alcune persone però possono avere un metabolismo del farmaco lievemente diverso dalla norma e quindi abbandonare la terapia prima che essa ha dato risultati o ha raggiunto il dosaggio ideale.
Dosaggio troppo basso. Questo accade soprattutto quando la terapia viene somministrata dai non addetti ai lavori. Molte volte mi sono trovata a lavorare con persone che seguivano una terapia farmacologica datagli dal medico di base che, preoccupato degli effetti di un antidepressivo, ad esempio, ne aveva prescritta solo mezza pasticca al giorno. Gli psicofarmaci quando si utilizzano…si utilizzano!! Non vanno demonizzati né dati goccia per goccia. Se si decide di intraprendere una terapia è necessario arrivare ad un dosaggio tale che, oltre agli effetti collaterali sia possibile percepire anche quelli terapeutici. Uno psichiatra è in grado di spiegare tutti gli effetti e di dosare un adeguato programma di aumento o decremento a seconda del caso e del farmaco scelto. Utilizzare dosaggi troppo bassi può comportare il rischio di avere solo effetti collaterali e nessun effetto terapeutico!
Mancata associazione di un’adeguata terapia comportamentale. Come ho spiegato nella prefazione…è utilissimo lavorare sul sintomo e talvolta è pre-requisito ad una terapia psicologica, ma questa diventa essenziale per superare il problema od imparare a conviverci.
Bassa compliance del paziente (significa che la persona non si applica nella terapia) perchè: preferisce la malattia alla salute, non riconosce la malattia, ha anche altre malattie psicologiche concomitanti, o manca di comprensione dello schema terapeutico globale (che spesso è la terapia farmacologica a fornire).
Quali caratteristiche influenzano un maggior prescrizione di psicofarmaci?
Prima di tutto le caratteristiche socio-anagrafiche del paziente;
Un atteggiamento particolare nei confronti della prescrizione farmacologica;
Le caratteristiche del prescrittore;
In che luogo e con che modi vengono prescritti i farmaci (Setting);
L’utilizzo dei servizi sul territorio;
Lo stile di lavoro nei servizi sul territorio.
Quali tipi di psicofarmaci esistono, a cosa servono e quali effetti collaterali hanno?
Gli psicofarmaci si dividono in 4 grandi categorie: gli Ansiolitici, gli Antidepressivi, gli Stabilizzatori dell’Umore e gli Antipsicotici.
Gli ANSIOLITICI, come suggerisce il nome, sono utilizzati come tranquillanti e sedativi degli stati d’ansia e possono essere somministrati anche come coadiuvanti negli stati d’Insonnia. Possono avere effetti miorilassanti (rilassamento muscolare) ed anticonvulsivani soprattutto ad alti dosaggi.
Si dividono in Benzodiazepine e Non Benzodiazepine il cui nome dipende dalla struttura della molecola che li compone. Sono i farmaci più prescritti in modo aspecifico anche a chi comunica semplicemente uno stato di stress più particolare e spesso inducono una dipendenza. Come ogni farmaco infatti devono essere gestiti da un professionista ed inseriti in un più ampio programma terapeutico.
L’esperienza mi ha insegnato che negli Attacchi di Panico, l’uso di ansiolitici all’occorrenza crea una dipendenza difficile da demolire e che, pur limitando il presentarsi dei sintomi (gli attacchi di panico appunto) non curano alla base il disturbo, mentre un trattamento cognitivo-comportamentale riesce a dare risultati duraturi nel tempo con terapie relativamente brevi (3 mesi/ 1 anno).
Gli ANTIDEPRESSIVI sono utilizzati nelle Depressioni Maggiori più o meno gravi, anche associate a disturbi di natura fisica e nel disturbo Distimico.
Dall’inizio del trattamento entro 2 mesi (4-6 settimane) si osserva di solito uni inizio di remissione sintomatologica, mentre gli effetti collaterali possono essere presenti fin dalle prime settimane; è necessario continuare il trattamento per almeno ulteriori 4 mesi e, qualora sia indicato, tentare lo scalaggio graduale il mese successivo. Non è infatti indicato fare una cura con Antidepressivi inferiore ad un anno o con dosaggi troppo bassi, in quanto non servirebbe a nulla!
Gli Antidepressivi si suddividono in diverse categorie, si ricordano i Triciclici (i primi sperimentati), Inibitori della MAO (un acceleratore di demolizione di sostanze che solitamente sono carenti nei Depressi), gli SSRI ed SNRI che sono farmaci selettivi nel reperimento cerebrale di Serotonina o Noradrenalina, fortemente carenti, soprattutto in determinate aree del cervello dei pazienti con Depressione.
Tutti possono avere effetti collaterali più o meno simili ma è importante considerare anche una certa predisposizione individuale a determinati effetti! Sebbene vi siano pochi Antidepressivi anoressizzanti e tutti comportino in breve tempo un certo aumento ponderale, vi sono diverse differenze individuali, quindi, qualora un farmaco abbia un effetto troppo importante sul peso della persona, andando quindi a determinare un nuovo problema, è possibile cambiarne il dosaggio o sostituire direttamente il farmaco, questo in accordo con il proprio Psichiatra naturalmente!
Altri effetti sono di natura gastro-intestinale, muscolare, ritenzione urinaria o necessità di urinare più frequentemente; alcuni possono indurre sonnolenza o peggioramento della performance sia cognitiva che fisica. Per questo è importante provare a modificare anche le modalità di somministrazione del farmaco (ad esempio la sera e non la mattina) quanto possibile, prima di rinunciare alla terapia che potrebbe avere effetti davvero più dannosi!
Gli STABILIZZATORI DELL’UMORE vengono utilizzati principalmente nel trattamento dei Disturbi Bipolari, ma vengono impiegati anche in patologie di tipo Schizoaffettive. Sono principalmente 3: il Carbonato di Litio, la Carbamazepina (non viene molto utilizzata perché interferisce con la concentrazione nel sangue di molti farmaci) e l’Acido Valproico (che al contrario è molto utilizzato soprattutto nel caso in cui non funzioni il Litio o abbia effetti collaterali troppo pericolosi; è efficace nei casi di Disturbo Ciclotimico, dove gli episodi depressivi e maniacali si susseguono anche rapidamente!). Ultimamente è stata inserita nel gruppo anche la Lamotrigina che ha effetti sul prevenire le ricadute degli episodi depressivi nel Disturbo Bipolare.
Questa categoria di farmaci è spesso utilizzata insieme agli Antipsicotici o agli Antidepressivi.
Gli ANTIPSICOTICI sono chiamati anche neurolettici o tranquillanti maggiori. Sono spesso utilizzati in acuto, come sedativi immediati in casi di comportamento violento e fuori controllo che possa essere associato a disturbi come la Schizofrenia, un danno cerebrale, un delirium od una Depressione agitata.
Possono dare effetti che si definiscono Extrapiramidali e che comportano movimenti, tremori o interruzioni nei movimenti involontari e simili a quelli che si osservano nel Morbo di Parkinson.
Per questo sono stati introdotti negli anni anche i cosiddetti Antipsicotici Atipici che agiscono a livello di determinati recettori del cervello e riducono gli effetti collaterali appena descritti.
Questi farmaci hanno effetti sui sintomi positivi della Schizofrenia, così chiamati perché costituiscono dei fattori che si aggiungono al quadro psicopatologico come: deliri, allucinazioni, idee fisse e disordini nel pensiero, al contrario dei sintomi negativi, in cui viene invece a mancare qualcosa alla persona che sperimenta: appiattimento emotivo, mancanza di comunicatività, anedonia (manca il piacere nel fare le cose) e mancanza di motivazione.
Quando si parla di ipocondria, ci si riferisce alla sindrome di Munchausen?
Assolutamente no! Nella Sindrome di Munchausen La persona ricerca consapevolmente vantaggi secondari dall’essere malato, lo stato d’ansia ed il profondi disagio che si manifesta nell’Ipocondria, attestano tutto il contrario.
Come si definisce l’Ipocondria?
Sono state date molte definizioni di Ipocondria, ma quella attualmente più accreditata denota un’eccessiva e persistente preoccupazione per il proprio corpo, la salute e le malattie, cui si associano paura e sospetto di essere affetto da una gravissima e letale malattia.
Quali sono le caratteristiche del disturbo?
Come si desume dalla definizione appena data le caratteristiche fondamentali sono:
Paura di avere una malattia
Sospetto di avere una malattia
Resistenza alla rassicurazione medica
Sintomi somatici
Preoccupazioni corporee
Comportamenti ipocondriaci (che consistono in continue richieste di rassicurazioni, anche se poi non servono; doctor shopping ossia cambio continuo di medici, continui controlli di diversa natura anche molto invasivi, costosi e dolorosi).
Per fare una diagnosi si Ipocondria il disturbo deve causare disagio e deve durare almeno 6 mesi.
Chi colpisce solitamente l’ipocondria ed a che età?
Il disturbo è equidistribuito fra uomini e donne anche se con una preponderanza verso quest’ultime e si manifesta nella prima età adulta, anche se in realtà può comparire a qualunque età.
Di quali malattie credono di soffrire più spesso gli ipocondriaci?
In generale sono malattie a lungo decorso inesorabile ed è anche per questo che le rassicurazioni mediche e gli esami clinici non sono rassicuranti; la persona può convincersi di aver sviluppato un tumore il giorno immediatamente seguente ad una risonanza magnetica, il macchinario può essere rotto, il medico poco capace di leggere i risultati e così via.
È possibile soffrire di Ipocondria ed Attacchi di Panico contemporaneamente?
Si capita anche se in realtà è molto più frequente che l’Ipocondria si manifesti assieme a Depressione Maggiore o Distimia.
Per alcuni aspetti, Ipocondria ed Attacchi di Panico sono assolutamente simili, in entrambi si ha una paura terribile di morire, ma le malattie temute sono nel primo caso a lento decorso e nel secondo invece, immediate come attacchi cardiaci o ictus.
Perché ci si ammala di Ipocondria?
Esistono diversi modelli che hanno tentato di spiegare l’eziopatogenesi del disturbo; quello cognitivo comportamentale spiega come sia centrale la tendenza dell’individuo ad interpretare erroneamente le informazioni relative ai sintomi corporei, le variazioni ponderali, la salute e così via. Questo aumenterebbe l’attenzione selettiva sui sintomi e l’abbassamento delle soglie sensoriali. I comportamenti di sicurezza inducono poi sintomi ansiosi ed anche questi sono interpretati come indici di malattia. Lo stesso modello si applica ai Disturbi di Panico, con la differenza che la malattia sospetta non è a lungo decorso.
Che differenze ci sono tra Ipocondria e Disturbo Ossessivo-Compulsivo da contaminazione?
Le persone che soffrono di Ipocondria sono convinte di avere una malattia in corso che non è stata diagnosticata e, che essa venga dall’interno come un tumore ad esempio. I DOC da contaminazione anzitutto hanno paura di contaminazioni da agenti esterni, ma anche che potranno venir contaminati e non lo sono attualmente.
Cos’è la Depressione?
Il DSM IV-TR definisce la Depressione Maggiore come un disturbo caratterizzato dalla presenza di almeno 2 Episodi Depressivi Maggiori.
La depressione è caratterizzata da cambiamenti fisiologici, dell’umore, del modo di pensare, del comportamento profondi e spesso duraturi nel tempo e si formalizza come un disturbo che va oltre il modo di dire “oggi mi sento depresso” e che invece si riferisce ad uno stato transitorio di umore a coloritura malinconica derivante da una causa più o meno riconoscibile. Il DSM-IV-TR (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) definisce l’episodio depressivo maggiore come un disturbo che si manifesta con 5 o più sintomi tra quelli qui sotto elencati durante il giorno, quasi ogni giorno, per un periodo di almeno due settimane:
– umore depresso;
– perdita di piacere per quasi tutte le attività durante il giorno;
– cambiamento di peso significativo (aumento o diminuzione);
– cambiamenti nelle abitudini del sonno;
– essere agitato o essere rallentato;
– mancanza di energia;
– sensazione di essere inutile;
– difficoltà nella concentrazione;
– pensieri ricorrenti di morte o di suicidio.
La depressione può colpire chiunque, giovani o vecchi, ricchi o poveri. È dovuta a cause molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, lutti familiari, problemi di lavoro…)
Perché ci si ammala di Depressione?
Ci sono diverse cause che possono portare allo svilupparsi di questa malattia ma è necessario parlare sempre di fattori di rischio che, entrando in contatto con fattori precipitanti particolari possono sfociare in un esordio. Non è infatti ancora chiaro e quindi prevedibile in quali persone questo disturbo si manifesterà sicuramente.
Fra i fattori biologici sembra che vi siano alcune alterazioni nella modulazione di 2 neurotrasmettitori in particolare: la serotonina e la noradrenalina (che vengono poi compensate e regolate dagli antidepressivi); alcuni deficit nel sistema neuroendocrino e quindi nei livelli ormonali; deficit alimentari; effetti collaterali di alcuni farmaci.
Fra le cause genetiche ricordiamo che è più frequente osservare una Depressione nei familiari di primo grado, ma questo potrebbe avere anche delle derivazioni dall’apprendimento.
Infatti, fra le cause familiari si ricordano gli stili genitoriali in quanto, genitori depressi possono avere stili attribuzionali negativi e quindi insegnare anche indirettamente ai figli una certa vulnerabilità cognitiva alla depressione. Inoltre anche il loro stile educativo può essere freddo e poco empatico.
Le cause psicosociali sono organizzate in modo gerarchico e sono moltissime, si ricordano i lutti, la separazione, gravi litigi, perdita di lavoro, bocciatura scolastica, perdita di un animale domestico, trasloco, cambio di città, cambio di abitudini, essere vittima di un atto di criminalità e così via.
Che cos’è il Lutto?
Il lutto è una normale e fisiologica reazione ad una perdita che evolve lentamente secondo un processo caratterizzato da alcune fasi ed ha una durata tipica di 1-6 mesi.
Quali sono gli stadi del lutto?
Diversi autori si sono occupati di definire le fasi del lutto, quindi rispondiamo indicando le principali:
Kubler-Ross (1978) delinea 5 fasi:
Negazione = Fase iniziale di shock durante la quale la persona continua a cercare il proprio caro all’interno dell’ambiente e ne coglie la presenza;
Patteggiamento = si comincia a sperare che il proprio caro ritorni e si fanno promesse affinché questo possa accadere realmente;
Rabbia = di realizza che il proprio caro non ritornerà più e si reagisce a questo con rabbia verso se stessi, il destino, il mondo e gli altri;
Depressione = consiste nella fase della profonda tristezza e disperazione relativamente all’irrimediabilità della morte;
Accettazione = finalmente si comincia ad accettare la perdita e si ritorna alla vita pur conservando i ricordi che, seppur commoventi perdono man mano la capacità di produrre un forte dolore.
Parkes (1980; 1998) ne individua 4:
Stordimento = è la prima fase che dura da poche ore a qualche giorno in cui si ha una sensazione di irrealtà, come se l’evento non fosse vero e per esempio si fosse soltanto sognato;
Ricerca = consiste nella ricerca del proprio caro in senso di pianto, ansia da separazione, ma anche rabbia, irritabilità, auto-accuse, perdita di autostima e del senso di sicurezza;
Disorganizzazione e Disperazione = è lo stadio caratterizzato dall’apatia, dalla disperazione e da un forte isolamento dovuto ad un ritiro dalla vita sociale;
Riorganizzazione e Guarigione: è il graduale ritorno alla vita, accompagnato da una graduale ricomparsa degli interessi personali e dal desiderio di ricominciare a pianificare il proprio futuro.
Quali sono gli obiettivi del lavoro sul lutto?
Innanzitutto è necessario raggiungere l’Accettazione della realtà della perdita ossia confrontarsi con una realtà di assenza del caro senza la sua negazione; in seguito è necessario affrontare l’Elaborazione del dolore del lutto che si ottiene sperimentando i sentimenti di dolore, depressione, isolamento e vuoto legati alla perdita stessa; si prosegue con un Adattamento ad una realtà nel quale il proprio caro non c’è più ed infine Trovare un nuovo spazio per il defunto per poter proseguire la propria vita.
Quali sono i sintomi presenti nel processo del lutto?
A livello emozionale sono presenti: shock, stordimento, tristezza, disperazione, rabbia, angoscia e paura, colpa, solitudine ed apatia.
A livello cognitivo si riscontrano: difficoltà di concentrazione, disorientamento, lievi e passeggeri stati confusionali, illusioni sensoriali, transitorie idee suicidare e pensieri ricorrenti circa il proprio caro o le circostanze della sua morte.
A livello comportamentale si osserva la continua ricerca del proprio caro, il pianto, disturbi alimentari, disturbi del sonno, ritiro dall’ambiente sociale, l’incapacità a condurre le normali attività quotidiane, la dipendenza dagli altri ed il ritornare in posti che ricordano il defunto o portare con sé qualche suo oggetto.
A livello somatico si presentano: debolezza e perdita di energia, sintomi somatici in generale, dolori muscolari ed alterazioni delle funzioni endocrine ed immunitarie.
Che differenza c’è tra un Lutto normale e quello che si definisce Lutto complicato?
Il lutto complicato è quello che si manifesta oltre i 6 mesi e perdurano caratteristiche tipiche di un immenso dolore: la persona non riesce a tornare alle proprie attività quotidiane, continua a pensare e ricercare il proprio caro; pensa che non può riuscire a ricostruirsi una vita e queste caratteristiche non si manifestano soltanto in occasione di particolari ricorrenze od anniversari.
Quali fattori incidono sulla possibilità che la persona soffra di lutto complicato anziché di quello normale?
Diciamo che, come per tutte le psicopatologie si possono riscontrare dei fattori facilitanti ossia che possono determinare l’insorgenza di un disturbo che, in persone meno predisposte, a pari condizioni, non si manifesterebbe. Tra queste vi è una storia familiare con alterazioni e disfunzioni; l’assenza o comunque l’indadeguatezza della rete di sostegno sociale; precedenti sofferenze psicopatologiche; una tendenza a reprimere le emozioni, non esprimere i sentimenti o somatizzare gli eventi stressanti; una difficoltà specifica nella relazione con la persona defunta ed infine l’avere possibili vantaggi secondari dal continuare ad avere una reazione luttuosa inadeguata.
Che relazione c’è tra lutto e depressione?
Talvolta può capitare che un lutto irrisolto si vada ad evolvere in una condizione grave come un Episodio Depressivo Maggiore od un umore stabilmente basso anche se di minor intensità come nel Disturbo Distimico.
Quando la reazione luttuosa perdura oltre 6 mesi ed è caratterizzata da un grave impoverimento del repertorio cognitivo e comportamentale, un senso di autosvalutazione molto forte o caratterizzato da una preoccupazione morbosa, è presente ideazione suicidaria o sintomi psicotici (deliri, allucinazioni, etc.) o rallentamento psicomotorio è possibile ipotizzare che questa manifestazione si stia trasformando in un disturbo cronico.
Attacco di panico: come uscirne?
Su questo tema molti autori si dividono e, di recente ho avuto modo di poter avere uno scambio di opinioni con Rosario Sorrentino, autore di un nuovo libro sul panico. Per quanto entrambi stimiamo e rispettiamo l’altrui professionalità, da parte mia non esiste altro rimedio se non la terapia cognitivo-comportamentale, pur non escludendo l’utilizzo di farmaci in casi estremi; il neurologo sostiene invece l’importanza della farmacologia, accettando un aiuto psicoterapeutico. Anche le prove sull’efficacia dei due metodi possono talvolta spaccarsi e non offrire una chiara visione d’insieme. Per esperienza personale, un trattamento cognitivo comportamentale, della durata di 3 mesi permette di superare il problema alla radice e per questo non intendo problemi irrisolti nell’infanzia, bensì un lavoro sull’autonomia che si è persa da quando si è iniziato a soffrire di attacchi di panico. Trovo che in alcuni casi i farmaci possano addirittura ostacolare questa conclusione, in quanto creano una dipendenza psicologica che poi inficia l’intero trattamento.
A favore completamente dei farmaci e di un ruolo più marginale della psicoterapia in disturbi diversi o più complessi!
Il trattamento in sé consiste in un lavoro su se stessi per quanto riguarda l’aumentare il numero di risorse comportamentali disponibili per fronteggiare ogni situazione, compresa quella del panico; un’esposizione diretta, anche se graduata, alle situazioni più evitate; un lavoro sul modo di pensare; ed un lavoro sugli stimoli corporei che sono diventati oggetto di attenzione della persona (per esempio controllare quanti battiti cardiaci si ha in un determinato momento).
Quali tipi di disturbi sessuali ci sono?
I disturbi sessuali si dividono in 4 grandi categorie:
PARAFILIE costituite da voyeurismo, frotteurismo, esibizionismo, feticismo, feticismo da travestitismo, sadismo, masochismo, pedofilia, parafilie non altrimenti specificate.
DISFUNZIONI SESSUALI rappresentate da Disturbi del Desiderio Sessuale (Disturbo da Desiderio Sessuale Ipoattivo e Disturbo da Avversione Sessuale); Disturbi dell’Eccitamento Sessuale (Disturbo dell’Eccitamento Sessuale Femminile e Disturbo Maschile dell’Erezione); Disturbi dell’Orgasmo (Disturbo dell’Orgasmo Maschile, Femminile; Disturbo da Eiaculazione Ritardata, Assente, Anedonica, Retrograda); Disturbi da Dolore sessuale (Dispareunia e Vaginismo); Disfunzioni sessuali dovuti ad una condizione medica generale; Disfunzioni sessuali indotta da sostanze; Disfunzioni sessuali NAS*.
DISTURBI DELL’identità DI GENERE sono quelli propriamente detti ed i NAS*.
DISTURBI SESSUALI NAS*.
Cos’è il Sado-Masochismo?
Sadismo e Masochismo sono due parafilie, ossia ricorrenti ed intensi impulsi sessuali e fantasie eccitanti sessualmente che consistono nel ricevere e/o infliggere un’autentica sofferenza o umiliazione a se stessi o al proprio partner; si tratta di un disturbo quando il comportamento, le spinte sessuali o queste fantasie, causano un distress od un danno in aree di funzionamento sociale, lavorativo o altre importanti, che si presentano clinicamente significative e naturalmente quando non c’è consensualità nella coppia o comunque capacità d’intendere e volere la situazione da entrambi i partner.
Naturalmente possono presentarsi sia separatamente che insieme.
Come affrontare la gelosia?
La gelosia è espressione di un sentimento di amore e, come tale anche di appartenenza/possesso per cui, quando si ama qualcuno si “pretende” di essere ricambiati incondizionatamente. Tutto questo va bene e fa bene alla coppia fin tanto che non si diventa limitanti e paranoici e quindi si iniziano a vedere cose che non ci sono solo per una lettura erronea di una situazione a partire da pochi indizi mal interpretati. Quando la gelosia è un problema si deve parlarne e capire da cosa deriva, in ogni caso, sono entrambi i partner a doversi impegnare per superarla!
Qualora dipenda dalla perdita di fiducia nella coppia si fanno specifici lavori proprio su questo aspetto; dare fiducia è un atto di fede. Lo si fa senza pensarci due volte, però quando questa viene tradita sembra che non ci sia niente da fare! Invece no! Non è un lavoro facile e leggero, ma si risolve. Più semplice è invece lavorare sulla gelosia a sé, quella che spesso si chiama “paranoia”. Anche qui è importante farsi aiutare dal partner a capire come non essere più invadenti e, qualora razionalmente si sia convinti, si possono mettere dei biglietti sul cellulare, nel borsello, in tasca, che ci ricordano con una parola o due, che non dobbiamo perdere “la ragione”. Ho trovato utile utilizzare con i miei pazienti la frase “è una paranoia”. Ogni volta che il pensiero di gelosia si presenta è opportuno ricordarsi che è semplicemente la nostra testa che ci fa vivere queste sensazioni spiacevoli e che dobbiamo continuare a fidarci della persona che ci sta vicino.
Sinceramente…esiste una terza possibilità ed è quella delle persone che, visti i propri trascorsi tendono a non fidarsi di nessuno e quindi a diventare intrusivi nei rapporti di coppia ma anche in quelli di amicizia. In questo caso la diagnosi potrebbe essere più importante ed il trattamento richiedere un lavoro un po’ più lungo (più di 6 mesi).
Cos’è la Tricotillomania?
È un disturbo che rientra nello spettro del discontrollo degli impulsi, come il disturbo ossessivo compulsivo, la bulimia, il disturbo da Tic di La Tourette, etc.
Consiste nello strapparsi peli o capelli in modo compulsivo andando a determinare vere e proprie aree di alopecia. Il meccanismo che ne è alla basa è l’ansia ed il comportamento messo in atto serve appunto a sedare e tenere sotto controllo questa emozione (naturalmente in modo disfunzionale!).
Come affrontare l’Apatia?
È importante anzitutto capire da cosa dipende l’Apatia perché purtroppo è un sintomo comune e spesso indice di psicopatologia! Qualora abbiate a che fare con una persona depressa, l’apatia è proprio caratteristica imprescindibile dal malato e, cercare di farlo uscire, o semplicemente alzare dal letto può divenire per lui molto frustrante perché può corrispondere a chiedere ad un paraplegico sulla sedia a rotelle di alzarsi ed andare a fare una corsa.
Talvolta si può scambiare invece l’apatia con un evitamento agorafobico. In questo caso è l’ansia che fa da padrone e la persona, impossibilitata per paura ad uscire sta a casa o a letto o, poiché è probabile che in tali condizioni subentri una leggera depressione, proprio senza far niente!
In entrambi i casi si cerca di portare la persona ad uscire ed a dedicarsi ad attività per lei piacevoli, ma può non essere facile e talvolta c’è bisogno di un sostegno farmacologico per farlo.
Nei casi “normali” di apatia, ossia quelle giornate in cui ci si alza dal letto già stanchi e ci si strascica dal letto al divano e viceversa, possono avere relazione con la stagione, o meglio con l’alternarsi luce/buio che è regolata a livello di alcune sostanze organiche che, a loro volta, possono influenzare il funzionamento dell’intero organismo. Può dipendere da un periodo di stanchezza fisica o mentale. Oppure ancora può essere presente una debilitazione a causa batterica o virale. In una società iperprestazionale come la nostra è necessario accorgersi dei cambiamenti del proprio corpo e, quando possibile, dedicare il giusto riposo a corpo e mente senza preoccuparsi del motivo che ci ha portati a letto quel giorno.
Cos’è e come si identifica l’Opportunismo -comunicazione non verbale e sguardo
Di per sé l’opportunismo non è una caratteristica di personalità e come tale non è che sia possibile individuarla con determinate tecniche. Fra gli stili interpersonali di comunicazione vi è però lo stile manipolatorio che, pur sembrando assertivo è invece molto aggressivo. La persona tende infatti a soddisfare i propri bisogni mantenendo una buona relazione con gli altri, proprio come farebbe quella assertiva, ma, per raggiungere tali scopi, non si comporterebbe in modo tanto onesto, raggirando gli altri. Queste persone non sono facili da riconoscere ed anche in questo caso non esiste una formula precisa, ma spesso si possono osservare comportamenti seduttivi o affiliativi per cui quando viene fatta una richiesta si tende a piacere e coinvolgere superficialmente l’altro o ad intenerirlo.
NAS*= Non Altrimenti Specificato