Lo sviluppo degli attacchi di panico, con o senza agorafobia
Gli antecedenti dell’attacco di panico
– Caratteristiche di personalità
Criteri diagnostici nei disturbi d’ansia
Condizionamento e generalizzazione
Fin dai tempi dell’antica Grecia, è stato descritto un disturbo che provoca paure irragionevoli in alcune persone considerate, per tutto il resto, del tutto “normali”, o meglio adattate al proprio ambiente. In altre parole, queste persone possono avere dei sereni rapporti con amici e colleghi di lavoro (buon funzionamento sociale), svolgono la propria attività, qualunque essa sia, con più o meno profitto (buon funzionamento scolastico/lavorativo), hanno relazioni di tipo sentimentale e di tipo comunque affettivo con i familiari più o meno soddisfacenti (buon funzionamento affettivo e familiare).
L’ansia è un’emozione spiacevole associata ad un senso di pericolo imminente, non così ovvio per un osservatore esterno. La paura è una sensazione molto legata all’ansia che nasce come normale risposta ad un pericolo reale. La timidezza indica una tendenza persistente a manifestare paura con facilità. Il panico denota la comparsa improvvisa di un senso di terrore acuto. La fobia è una paura che si manifesta soltanto in certe situazioni o di fronte ad eventi od oggetti particolari.
Paura, ansia, angoscia e terrore, sono emozioni molto simili, non sempre distinguibili. Ciò che le accomuna è il loro contenuto cognitivo e la reazione somatica associata: durante l’attacco di panico le persone cominciano a credere che stia per accadere loro qualcosa di terribile e pericoloso, tanto da far impazzire o morire o perdere il controllo (contenuto cognitivo); tale convinzione personale induce una reazione di allarme particolare che permette di combattere o fuggire e che, in ogni caso, tende ad opporsi al pericolo incombente più o meno reale che sia (reazione somatica).
Gli attacchi di ansia sono molto comuni e si manifestano con alcuni sintomi specifici della paura intensa; ancora comuni ma meno frequenti sono invece gli attacchi di panico che, pur essendo classificati fra i disturbi d’ansia, hanno caratteristiche specifiche ed un certo numero di criteri da soddisfare affinché sia possibile effettuare tale diagnosi.
Il confine tra i due tipi di attacchi non è sempre netto; oltre al numero di sintomi coinvolti e che vedremo nel paragrafo 1.3 a pagina 9, una caratteristica fondamentale per la distinzione tra ansia e panico deriva proprio dall’analisi del contenuto cognitivo dei sintomi di tale attacco:
- Attacco d’ansia: Le persone tendono a focalizzarsi sulle emozioni provate, quindi: uno stato di apprensione, la sensazione di non riuscire a concentrarsi, una tensione crescente, mentre, i sintomi fisici come le vampate di calore, l’aumento del battito cardiaco o le sensazioni di nausea, per esempio, vengono lasciate in secondo piano.
- Attacco di panico: Le emozioni vengono percepite come una naturale conseguenza dei sintomi fisici; questi vengono percepiti come sintomi organici di malattia, solitamente grave, al quale segue appunto un’apprensione ed una sensazione di paura che induce solitamente le persone a ricercare aiuto.
Gli attacchi di panico sono quindi riconosciuti a seguito di richieste di aiuto al pronto soccorso o alla guardia medica e, anche se tale sintomatologia è nota, in quanto conoscenti o amici soffrono di tale disturbo, subire un attacco di panico significa, almeno la prima volta, cercare aiuto perché si teme veramente per la propria salute fisica.
Il disturbo di panico si riferisce ad una sintomatologia caratterizzata da attacchi frequenti e continuati. Al contrario è possibile aver avuto un solo attacco di panico, senza che tale disturbo tenda a cronicizzarsi.
Alcune persone affette da attacchi di panico non cambiano le proprie abitudini, ma nella maggior parte dei casi cominciano invece ad evitare determinate situazioni.
Intorno al 1990 gli attacchi di panico erano definiti clinicamente “paura della paura”; le persone affette da tale disturbo sviluppano infatti una particolare apprensione circa la possibilità di avere un nuovo attacco, che solitamente non è atteso. Avere avuto un attacco di panico in una certa situazione, può indurre la persona a ritenere che sia proprio quell’ambiente ad aver scatenato il disturbo e, soltanto il pensare a tale luogo può indurre nella persona alcuni dei sintomi dell’ansia.
L’evitamento è uno specifico meccanismo che comporta il rinforzamento dell’ansia, in quanto, allontanarsi dal luogo temuto e che immediatamente indurrebbe alcune avvisaglie ansiose, come il battito cardiaco elevato, la respirazione affannosa e così via, prevede una riduzione immediata di tali sintomi.
Quello che percepisce l’organismo di una persona affetta da disturbo di panico è quindi lo stesso che allontanare un dito da una fiamma, solo che la fiamma brucia veramente, mentre avere, o solo aver la sensazione di avere un’accelerazione del battito cardiaco non è indice indiscutibile di un attacco cardiaco e spesso, neanche di un attacco di panico.
Nonostante questa riflessione, le persone che soffrono di ansia e quindi anche quelle con il panico, delineano 3 classi di situazioni che vengono più spesso evitate:
Quelle dove si sono verificati in precedenza gli attacchi di panico (basta anche che questo sia sopraggiunto una sola volta) ed in seguito, per un processo chiamato generalizzazione estendere l’evitamento ad ambienti analoghi; ad esempio, dall’evitare il supermercato è possibile passare ad evitare ogni negozio in cui è probabile dover stare in coda, o altri negozi in cui sono installati condizionatori d’aria, o altri negozi in cui sono presenti banchi dall’odore particolare come quello del pesce e così via, dipendentemente dal tipo di elemento della situazione o del luogo che è associato/condizionato alla paura.
È possibile poi che persone evitino determinate situazioni a causa delle conseguenze sociali che si potrebbero verificare in caso di attacco di panico. Tale evitamento è assai frequente nel caso in cui, il contenuto cognitivo dell’attacco di panico riguardi la paura di perdere il controllo, o di impazzire, piuttosto che di morire o di subire un danno molto grave. Al contrario, molte persone affette da disturbo di panico si sentono rassicurate in ambienti affollati, all’interno dei quali è più probabile venir soccorsi.
Altra situazione evitata per eccellenza è quella che prevede una certa pericolosità in sé, nell’avere un attacco di panico, come è ben rappresentato dall’essere alla guida di un mezzo di locomozione.
Va notato che non è necessario aver avuto davvero un attacco di panico in una determinata situazione per poi verificarsi un suo evitamento; è sufficiente che la persona creda che in tale situazione sia più probabile avere un attacco di panico o che, una volta avuto l’attacco sia impossibile sottrarsi velocemente o ricevere aiuto.
In generale, tutte le persone affette da attacchi di panico prima o poi arrivano ad evitare determinate situazioni od a sperimentare atteggiamenti protettivi specifici, al fine ideale di ridurre la probabilità di avere un attacco di panico.
Un atteggiamento protettivo è un gesto scaramantico od una precisa precauzione che permette all’individuo di non evitare completamente una situazione. Può essere rappresentato dall’avere un determinato oggetto con sé, l’essere accompagnato da una persona, avere la sicurezza che in quel determinato posto è possibile trovare facilmente un medico e così via. Un oggetto protettivo svolge quindi la funzione della “copertina” per Linus di Shultz.
L’ansia relativa ai contesti dell’evitamento: luoghi pericolosi, o imbarazzanti, o dai quali sia difficile scappare o ricevere aiuto, nel caso in cui la persona sperimenti un attacco di panico, prende il nome di agorafobia.
L’agorafobia si manifesta quindi:
Attraverso la sensazione di ansia provata dalla persona che soffre di attacchi di panico che, in tali contesti, teme di averne uno;
Con la messa in atto di evitamenti.
In alcuni casi la persona può non mettere in atto l’evitamento di una situazione temuta, ma la sua permanenza in tale condizione crea molto disagio. Qualora l’evitamento o l’intensa paura sia relativa a specifiche situazioni, oggetti, o luoghi, il disturbo si caratterizza come fobia specifica (per un determinato oggetto fobico, come ragni, serpenti, buio, temporali e così via) o come fobia sociale (paura sproporzionata di situazioni sociali con un picco per il parlare ad un ampio pubblico).
In tal senso le persone che soffrono d’ansia possono demarcare zone “sicure” e zone “pericolose”: le prime sono rappresentate da caratteristiche strutturali di relativa sicurezza, come spazi aperti per chi ha sintomi di soffocamento, molte possibilità di sedersi per chi teme di svenire, o soltanto la presenza di una persona di fiducia, di un medico, od anche del telefono cellulare; le seconde sono evitate in modo sistematico, andando a rinforzare la convinzione che, poiché al di fuori di quelle situazioni non si è manifestato un attacco di panico, sono veramente quelle determinate circostanze ad indurre il disturbo. L’estensione degli evitamenti dipende dal tipo di situazione evitata e dalla generalizzazione ad altri luoghi che ne può conseguire e può determinare modifiche anche rilevanti nella vita della persona. Solitamente si passa da limitazioni lievi come non affrontare determinati viaggi se non accompagnati da una persona di fiducia, fino a restrizioni più gravi che ostacolano il recarsi a lavoro od addirittura la piccola autonomia di spostamenti vicino alla propria abitazione. Nei casi estremi questo disturbo conduce gli individui affetti da disturbo di panico a vivere come reclusi in casa propria ed a dipendere in tutto dalla collaborazione di familiari ed amici.
Con la pratica clinica è stato osservato che un lavoro di gruppo in grado di affrontare questi obiettivi in modo efficace, per persone che soffrono di attacchi di panico, ottiene i suoi risultati in circa 12-16 incontri. Le sedute sono strutturate in incontri settimanali di 1 o 2 ore, dipendentemente dalla numerosità del gruppo.
Lo sviluppo degli Attacchi di Panico con o senza Agorafobia
In questo paragrafo si vuole spiegare perché alcune persone possono sviluppare un disturbo di panico ed altre non conoscere mai nemmeno un attacco, sulla base di elementi la cui combinazione offre possibilità sempre diverse.
Iniziamo da quelle caratteristiche che si riscontrano comunemente nelle persone che soffrono di questo disturbo:
FATTORI PREDISPONENTI
- Predisposizione ereditaria ad alcune caratteristiche di personalità o a malattie fisiche (vedi sotto);
- Malattie fisiche implicanti persistenti anormalità neurochimiche (ipertiroidismo) o che producono continue paure di disastro imminente (prolasso della valvola mitrale);
- Traumi dello sviluppo che conducono a vulnerabilità specifiche;
- Esperienze od identificazioni personali inadeguate a fornire modalità appropriate per fronteggiare le situazioni critiche;
- Modelli cognitivi controproducenti, obiettivi irrealistici, valori ed assunzioni irragionevoli appresi dagli altri significativi (madre, padre, ecc.);
- Carenza di abilità sociali o mancata acquisizione di alcune di esse;
- Background genetici, sociali, culturali, professionali e religiosi possono svolgere un ruolo importante nel predisporre a numerose patologie o nel modulare la capacità di reagire.
- Nonostante una certa predisposizione agli attacchi di panico, ancora altri fattori, determinano l’insorgenza del disturbo in un certo periodo della vita, piuttosto che in un altro e, anche in questo caso, non in qualunque persona predisposta:
FATTORI PRECIPITANTI
- Malattie fisiche e sostanze tossiche;
- Gravi stress esterni (esposizioni a pericoli fisici o psicologici);
- Stress esterno cronico ed insidioso (es. Continua e sottile disapprovazione da parte degli altri significativi);
- Stress esterni che colpiscono la specifica vulnerabilità emotiva (es. L’imposizione di una rigida disciplina militare ad un individuo autonomo; aumento di responsabilità con un nuovo lavoro o con la genitorialità; insuccessi lavorativi o nelle relazioni di coppia; trasferimenti; distacco dai genitori; ecc.).
Esisterebbero poi degli elementi che impedirebbero, o che comunque ritarderebbero, il manifestarsi di questa patologia e che prendono il nome di fattori protettivi; spesso essi sono rappresentati dal sostegno sociale e/o familiare o da caratteristiche di personalità che favorirebbero non solo la capacità di reazione di fronte a determinati stress o problemi, ma anche l’abilità di saper riconoscere determinati segnali del proprio organismo, di accettare consigli o solamente di chiedere aiuto adeguatamente ed in tempi ridotti.
Quindi, come alcune caratteristiche personali possono indurre una certa vulnerabilità al disturbo di panico, altre fornirebbero invece una certa corazza nei confronti di esso.
Gli ultimi fattori da esaminare sono quelli di mantenimento, o fattori perpetuanti i quali permettono al disturbo di cronicizzarsi. Essi sono rappresentati da tutti i fattori protettivi e soprattutto dagli evitamenti di luoghi o situazioni. Come accennato, mantengono alta la paura ed impediscono di affrontare una volta per tutte il problema. A volte vi sono alcuni meccanismi personali o familiari che fungono da fattori di mantenimento e prendono il nome di vantaggi secondari alla malattia; essi si manifestano come il rinforzo della mamma apprensiva a terrorizzare i figli ad uscire di casa, od il marito geloso che tranquillizza la moglie con attacchi di panico sul fatto che la può sempre accompagnare lui in ogni luogo, o l’essere accuditi perché siamo malati, ecc.. Anche se molti non lo riconoscono, la maggior parte dei casi di disturbo di panico è caratterizzato da vantaggi secondari, anche se talvolta essi vengono trovati come una sorta di consolazione, data la sofferenza del disturbo in sé.
L’età di esordio per il disturbo di panico varia considerevolmente, ma si colloca più tipicamente tra la tarda adolescenza ed i 35 anni. Può esservi una distribuzione bimodale, con un picco nella tarda adolescenza ed un secondo picco più piccolo verso i 35 anni. Un esiguo numero di casi inizia nell’infanzia, mentre l’esordio dopo i 45 anni è insolito, sebbene possibile.
Possiamo dunque riassumere quanto finora detto circa il disturbo di panico attraverso la discussione della figura 1.
Fig.1 modello cognitivo del disturbo di panico (Clark 1986) modificato, con aggiunta del ciclo di mantenimento (Wells, 1990).
La natura del disturbo di panico è caratterizzata da un preciso circolo vizioso: l’anticipazione dell’ansia genera ansia: vi sono quindi dei fattori scatenanti che possono essere stimolazioni interne o esterne all’organismo che fanno sì che venga avvertita una certa sensazione di minaccia; tale percezione induce ansia – lo stato di ansia conduce alle sensazioni di panico imminente attraverso alcuni sintomi somatici – i sintomi sono interpretati in chiave catastrofica ed estrema ed incrementano lo stato d’ansia in corso- il soggetto ha un attacco di panico. Si inserisce in questo complesso meccanismo quello del mantenimento del panico: mettere in atto evitamenti di situazioni specifiche, affrontarle solo con comportamenti protettivi ed avere un’attenzione focalizzata su tutti quei fattori che possono segnalare l’insorgenza di un nuovo attacco (per esempio condizioni della situazione o sintomi interni all’organismo), tendono a mantenere e rinforzare ulteriormente il disturbo.
Dunque, questo disturbo prende la forma di un meccanismo molto definito in cui è possibile intervenire su ciascuno dei suoi aspetti. Un elemento importante è il sistema di credenze su se stessi che ognuno costruisce nel corso degli anni: le modalità di confronto con gli altri, di interpretare gli avvenimenti, di fronteggiare gli ostacoli ed i problemi della vita. Queste convinzioni, che non sono immediatamente consapevoli, ma perlopiù automatiche, sono vere e proprie teorizzazioni personali che influenzano e guidano il comportamento del soggetto e fungono da coordinate di riferimento.
Le ricerche più attuali hanno evidenziato che, oltre a fattori predisponenti e scatenanti, solitamente i soggetti affetti da disturbi d’ansia e quindi anche quelli con panico, tendono ad avere determinati modelli cognitivi, ossia tipici modi di pensare; li riassumiamo esemplificati in 3 categorie:
1. Accettazione
“devo essere accudito da qualcuno che mi ama”
“non posso essere lasciato solo”
“non sono nulla se non sono amato”
“essere rifiutati è terribile”
“devo piacere agli altri”
2. Competizione
“devo essere qualcuno”
“se non raggiungo il massimo sono un fallimento”
“devo essere il migliore in ogni cosa che faccio”
“se commetto un errore sarà un fallimento totale”
3. Controllo
“devo essere perfetto per avere il controllo”
“non posso sopportare di perdere il controllo”
“devo essere il solo superiore di me stesso, non posso chiedere aiuto agli altri” .
Come vedremo nel capitolo relativo al pensiero, questi schemi sono fondamentali affinché la persona sia predisposta non solo ad avere un certo disturbo, ma anche ad essere in qualche modo resistente alla sua cura.
In conclusione, i costrutti cognitivi psicopatologici dell’ansia sono:
Timore sproporzionato di danno e tendenza a previsioni negative, (pensiero catastrofico): a partire dalle situazioni quotidiane è la tendenza a prevedere soprattutto conseguenze negative ed a concepire il pericolo insito in queste possibilità negative, come inevitabile, irresistibile ed irreparabile;
Timore dell’errore o perfezionismo patologico: si può definire come la tendenza a sottolineare gli errori e le imperfezioni presenti nei compiti eseguiti ed a temere e prevedere che queste imperfezioni conducano inevitabilmente a conseguenze negative e catastrofiche;
Intolleranza dell’incertezza: è definibile come la tendenza a pensare di non poter sopportare emozionalmente il fatto di non conoscere perfettamente tutti i possibili scenari ed eventi futuri e di non poter sostenere il dubbio che tra questi possibili avvenimenti futuri ve ne possano essere alcuni negativi; inoltre, anche nel caso in cui la probabilità che si avverino questi avvenimenti negativi sia molto bassa, queste persone credono che invece si realizzeranno inevitabilmente;
Autovalutazione negativa: si definisce come la tendenza a prevedere scenari catastrofici derivanti direttamente da una valutazione negativa sia delle proprie capacità pratiche (autovalutazione negativa prestazionale) che delle proprie capacità di autocontrollo emotivo e di recupero nelle situazioni di difficoltà e di stress (autovalutazione negativa di debolezza e fragilità);
Necessità di controllo: è definibile come lo strenuo perseguimento e ricerca da parte del soggetto ansioso dell’illusione di certezza assoluta che egli possa impedire che si avverino tutte le possibilità negative.
Gli antecedenti dell’attacco di panico
Tutto quello che accade prima della manifestazione di un disturbo, e quindi anche di un attacco di panico, prende il nome di antecedente, (a), ed è molto comune che lo stress sia un antecedente per eccellenza della maggior parte dei disturbi di interesse psicologico.
Chi soffre di attacchi di panico, come già accennato, tende a minimizzare lo stress causato da qualche cambiamento, quasi ne fosse immune, e si dedica invece totalmente alla risoluzione del problema più oggettivo, accorso nella propria vita. In questo modo, non si prendono però le dovute precauzioni per rispondere ai problemi senza esaurire le proprie energie. Inoltre, non riconoscere il reale antecedente, porta la persona a trovarsi improvvisamente di fronte al primo attacco di panico; la persona che ha avuto il primo attacco di panico in una banca, prima di tutto riterrà di avere un disturbo fisico e poi penserà che la propria a sia quel luogo, o quel luogo in una giornata troppo calda, o uscire di casa da solo, e così via, senza pensare che invece questo è il risultato del logorio dello stress. A seguito di un antecedente (a), vengono innescati sia certi comportamenti, come fuggire, che alcuni pensieri caratteristici, quali: “sto per morire”, “nessuno mi aiuterà”, ecc., (b). Alla fine, questo ciclo si chiude con una conseguenza c che è rappresentata solitamente da un persistente evitamento o dall’utilizzo di comportamenti protettivi.
Una volta che la persona confonde il proprio antecedente con la situazione o la condizione in cui si è manifestato l’attacco di panico, tenderà poi a modificare quello piuttosto che sui contenuti di b, o c.
A volte lo stress può presentarsi sul piano psicologico anziché fisico e più specificatamente psicosociale; questo è rappresentato da: l’abbandono, la perdita di familiari, i cambiamenti di lavoro ecc.. Quando questi eventi sono vissuti come minaccia, danno origine a meccanismi difensivi e concomitanti fisiologici quali il modificare qualità ed intensità delle emozioni, precipitare in un processo somatico patologico e mettere in moto i meccanismi difensivi.
La risposta dell’organismo allo stress, di qualunque tipo si tratti, che sia consapevole o meno, ha valore di conservazione. Quando questa reazione, però, dura troppo a lungo od è troppo intensa, assumerà ben presto una valenza negativa e, come finora spiegato, uno degli effetti possibili è appunto il manifestarsi di un primo attacco di panico.
Con il termine iperventilazione s’intende un ritmo ed un’intensità di respirazione eccessiva e quindi superiore alla norma. Spesso le persone che iperventilano non si rendono conto di farlo e, possono provare disagio nell’esperirne le conseguenze proprio a causa di questa mancanza di consapevolezza. A seguito di una prolungata iperventilazione infatti, si può provare la sensazione di giramenti di testa, senso di stordimento, formicolii alle mani o ai piedi, debolezza delle gambe, palpitazioni, dolore e senso di costrizione al torace e senso di panico crescente. Come vedremo nel paragrafo successivo è chiaro come tutti questi sintomi possono essere esperiti durante un attacco di panico e spiegheremo in che modo si vengono a generare a partire dalla modalità di respirazione.
Ci sono almeno tre tipi di respirazione eccessiva; i primi due sono sporadici e quindi si verificano solamente durante episodi di ansia od in concomitanza di altri stati psico-fisiologici particolari; il terzo è invece abituale e tende quindi ad essere presente per gran parte del tempo, manifestandosi essenzialmente come una cattiva abitudine.
Tipi di respirazione eccessiva:
1. L’affanno. Si verifica durante periodi di ansia o paura acute.
2. I sospiri e gli sbadigli. Danno luogo, involontariamente, ad un respiro profondo e spesso inaspettato.
3. Respiro eccessivo abituale. È un tipo di respiro costituito da un aumento leggero ma prolungato nel tempo della profondità o della velocità del respiro. Di per sé non è sufficiente a provocare un attacco di panico, ma dà luogo ad uno stato di continua apprensione, di leggero stordimento e di difficoltà a concentrarsi completamente. Nel caso in cui si presenti una situazione di affanno od un sospiro, la chimica interna all’organismo, che spiegheremo tra poco, potrebbe cambiare tanto da determinare uno squilibrio interno, che a sua volta riuscirebbe ad essere causa dell’insorgere di un attacco di panico.
Caratteristiche di personalità
Per personalità s’intende la modalità usuale con cui una persona reagisce, prova emozioni e si comporta abitualmente. Coloro che soffrono di attacchi di panico tendono a considerarsi molto sensibili, emotivi e con la tendenza a preoccuparsi troppo. In realtà, come abbiamo già spiegato, esistono alcune caratteristiche predisponenti che non sono soltanto genetiche ed individuali ma anche apprese sia dalla famiglia che dall’ambiente circostante e questi fattori hanno la capacità di rendere alcune persone più suscettibili a cadere in questo tipo di problema, qualora si vengano a presentare determinate circostanze, che abbiamo descritto con il nome di fattori precipitanti.
Criteri diagnostici
Come accennato in precedenza, affinché si possa esplicitare una determinata diagnosi, è necessario che per ogni disturbo in questione, siano rispettati alcuni criteri, come definito nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR).
Verranno riportati di seguito i criteri principali per poter definire alcuni dei disturbi d’ansia più comuni.
Disturbo di panico:
Un periodo delimitato d’intensa paura o disagio, durante il quale quattro (o più) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco massimo nel giro di 10 minuti; queste sensazioni si esauriscono al massimo entro mezz’ora:
1. palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia;
2. sudorazione;
3. tremori fini o grandi scosse negli arti superiori od inferiori;
4. dispnea o sensazione di soffocamento;
5. sensazione di asfissia;
6. dolore o fastidio al petto;
7. nausea o disturbi addominali;
8. sensazioni di sbandamento, d’instabilità, di testa leggera o di svenimento;
9. derealizzazione (sensazione di irrealtà o di sogno) o depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da sé stessi);
10. paura di perdere il controllo o d’impazzire;
11. paura di morire;
12. parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio);
13. brividi o vampate di calore.
È dunque importante riflettere sul fatto che, sebbene le caratteristiche nei disturbi d’ansia e non solo, possano talvolta coincidere, avere un disturbo di panico significa rispettare tutti i criteri specifici e, per quanto ognuno possa manifestare i sintomi in gruppi diversi e più gli uni rispetto agli altri, l’omogeneità viene fornita dalla diagnosi dello stesso tipo di problema. Non basta presentare un singolo sintomo clinico per avere un disturbo ed è fondamentale che le diagnosi siano coerenti con i propri sintomi, affinché le terapie abbiano l’effetto dichiarato.
Condizionamento e Generalizzazione
Il condizionamento classico o condizionamento rispondente, fu elaborato da pavlov, fisiologo premio nobel nel 1904, attraverso sperimentazioni con cani.
In breve, il ricercatore russo si accorse che i cani presentavano un aumento di salivazione in assenza del cibo, quando si creavano delle condizioni tipiche che anticipavano l’arrivo di esso.
Egli provò quindi a definire una situazione di laboratorio per studiare tale fenomeno.
Quando ad un cane viene presentato del cibo, questo ha una riflesso automatico di aumento della salivazione. Il cibo viene definito stimolo incondizionato in quanto è in grado di provocare una risposta automatica ovvero un riflesso (o reazione) incondizionato che è appunto iniziare a salivare.
Nella sperimentazione di Pavlov, ai cani veniva presentato uno stimolo neutro artificiale (ad esempio un campanello oppure una luce), ovvero uno stimolo non in grado di produrre di per sé un aumento della salivazione. Successivamente alla presentazione di tale stimolo veniva presentato il cibo (stimolo incondizionato).
Dopo un certo numero di sequenze “stimolo neutro” (luce) – “stimolo incondizionato” (cibo), si verificò nei cani un aumento di salivazione alla sola presentazione dello stimolo neutro. Tale stimolo venne definito “stimolo condizionato” e la risposta da esso provocata, riflesso condizionato o reazione condizionata.
Il fenomeno per il quale uno stimolo neutro diventa condizionato ovvero è in grado da solo di produrre quella che abbiamo definito una reazione condizionata è definito acquisizione.
Un altro importante fenomeno emerso attraverso tali osservazioni di laboratorio, è quello della generalizzazione dello stimolo, per il quale, stimoli simili per alcune costanti, ma non identici allo stimolo condizionato, possono produrre lo stesso effetto di quest’ultimo. Le somiglianze tra gli stimoli possono essere di tipo fisico misurabile, ed allora si parla di generalizzazione primaria, oppure soggettive o legate a differenze individuali con similitudini simboliche, ed in quest’ultimo caso ci si riferisce ad una generalizzazione secondaria.
Sempre in una situazione sperimentale si è visto come sia possibile l’estinzione del comportamento appreso (riflesso condizionato) dopo un certo numero di presentazioni dello stimolo condizionato non associato alla presentazione di cibo.
Quando però, dopo l’estinzione, si ripresenta il nesso associativo tra lo stimolo condizionato e lo stimolo incondizionato, l’acquisizione della reazione condizionata (salivazione nel nostro esempio) è molto più rapida rispetto alla prima volta. Si parla quindi di riacquisizione. Tale fenomeno dimostra come l’estinzione sia un processo attivo, in grado di inibire la risposta appresa e non di eliminarla.
Nel caso dell’ansia l’organismo umano si comporta esattamente come i cani di Pavlov: associando una reazione d’intensa paura ad una situazione stimolo originariamente neutra, essa diventa condizionata. A differenza della sperimentazione in laboratorio e degli altri tipi di condizionamento che si possono osservare, per quanto riguarda l’ansia ed il panico, affinché s’instauri questa risposta condizionata, non è necessario che gli stimoli, condizionato ed incondizionato, vengano presentati molte volte, ma basta una singola esposizione.
Secondo la teoria comportamentista gli attacchi di panico costituiscono uno stimolo incondizionato il quale, presentandosi in relazione temporale o spaziale con uno stimolo di per sé neutro (luoghi e situazioni in cui gli attacchi si manifestano), conferisce a quest’ultimo la proprietà di evocare una risposta condizionata. Per il principio della generalizzazione, le persone andrebbero poi ad evitare tutte le situazioni o le condizioni analoghe a quelle del primo attacco. Quindi, il forte stress dell’ultimo periodo genera una risposta ansiosa forte da parte dell’organismo, mentre la persona è in coda al supermercato; questa interpreta i propri sintomi fisici come un attacco cardiaco e dà origine all’attacco di panico. Lo stimolo neutro rappresentato dallo stare in coda al supermercato diventa condizionato al panico stesso, divenendo il nuovo antecedente e viene evitato.
Mostriamo nella figura 2 il modello proposto da Cerny e Barlow circa l’instaurarsi del disturbo di panico a partire dal primo attacco il quale, come vedremo in questo schema esemplificativo, prende appunto il nome di falso allarme, per denotarne la neutralità rispetto al successivo condizionamento:
Fig.2 Modello Eziopatogenetico del panico. Barlow e Cerny.
Le condotte di evitamento riducono il contatto con le situazioni ansiogene contenendo, quindi, il numero degli attacchi di panico e proprio per questo vengono sempre più rinforzate: allontanarsi dalla situazione che genera ansia, riduce questo sentimento negativo e questo rinforza a sua volta il comportamento di evitamento. Questo atteggiamento, favorisce però l’aumento dell’ansia in concomitanza di questo errato a e la generalizzazione di un luogo a molti altri; nel tempo, il comportamento fobico viene ad estendersi, fino a comprendere tutte quelle situazioni in cui il paziente ritiene difficile trovare aiuto o tentare la fuga, a seconda delle caratteristiche del proprio disturbo. In questo modo l'”estinzione”, cioè il processo per cui gli stimoli condizionati perdono il legame di associazione con gli stimoli incondizionati, diventa sempre più difficile e va a nutrire il già grande insieme di idee disfunzionali circa: la minacciosità di certi contesti o dati luoghi e l’incapacità personale a fronteggiare tale situazione in modo adeguato.
Allo stesso modo, anche le sensazioni enterocettive (che provengono dall’interno dell’organismo) o specifici contenuti di pensiero, secondo questa ottica possono divenire stimolo condizionato per gli episodi critici, se posti in relazione inizialmente ad un attacco di panico di origine sconosciuta, ad es. Ogni sintomo del panico come l’aumento del battito cardiaco, una vampata di calore, ecc., divengono precursori del successivo attacco.
Riassumendo: una persona che presenta alcuni dei fattori predisponenti prima esposti, in concomitanza ad un periodo intenso di stress o di prolungato stress sottosoglia, il quale viene sottovalutato od addirittura non riconosciuto, manifesta il suo primo attacco di panico, che altro non è che un falso allarme, ossia una risposta inadeguata di paura intensa verso una situazione che non è di per sé minacciosa. Quest’emozione produce degli stimoli enterocettivi che sono quelli tipici dell’attacco di panico e che, secondo il modello cognitivo mostrato in figura 1 a pagina 5, vengono mal interpretati e vanno ad incrementare ulteriormente l’allarme provocato, che viene acquisito e condizionato in un allarme appreso. La persona che ha sperimentato questi primi stadi, inconsapevole di avere una certa vulnerabilità biologica, verifica quindi una propria vulnerabilità psicologica che si manifesta con i sintomi tipici dell’ansia e con tutti i correlati fisici e fisiologici di essa i quali, a loro volta, possono non essere consapevolmente correlati all’ansia ed indurre invece a pensare di avere un disturbo di tipo fisico: ictus, infarto del miocardio, ecc. Da qui, le persone possono iniziare ad evitare situazioni o condizioni analoghe al primo attacco, oppure affrontarle solo grazie a comportamenti protettivi che, come abbiamo spiegato esacerbano ed esasperano il problema stesso.
Se il disturbo di panico dipende dall’acquisizione di un condizionamento, continuare ad evitare ritarda la possibilità di decondizionare la reazione; una volta superato il problema è utile ricordare che il ricondizionamento è molto semplice la seconda volta ed occorre quindi impegnarsi sempre per non ricadere nel solito meccanismo, esponendosi costantemente alle proprie paure e cercando di etichettare in modo adeguato le sensazioni che provengono dal proprio organismo.
Nel periodo precedente al primo attacco di panico, la maggior parte delle persone sperimenta, senza però porci un’eccessiva attenzione, un livello di stress elevato che quindi è frequentemente accompagnato da un atteggiamento minimizzante, rispetto invece ai problemi contingenti. Quello che le persone riferiscono spesso sono: problemi familiari, di lavoro, cambiamenti importanti nella qualità della vita o nella generale organizzazione familiare, frustrazioni o relazioni particolarmente impegnative ed altre situazioni che comunemente sono caratterizza e da stress.
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